Dal rosa al nero, quando le maglie dicono più di mille parole

La prima fu una maglia della Fiorentina. A Palermo. Mi ricordo ancora questo negozietto di Corso Vittorio Emanuele. “Scegli”, disse mio padre, “quale vuoi? Fiorentina o Sampdoria”. Io che sampdoriano lo sarei stato solo dieci anni dopo scelsi quella della Fiorentina di Socrates. Ci giocavo a pallone, ci camminavo in giro e ci ho pure dormito.

Poi vennero altre maglie. Quelle della Samp, tante, poi Palermo e poi le maglie che per me hanno avuto un significato profondo o una bellezza intrinseca. Quella del Corinthians che celebra Senna, quella della Chapecoense che fu decimata nel disastro aereo. Un sacco di maglie del St Pauli. Una squadra anarchica e contro ogni dittatura della serie B tedesca e con una cultura meravigliosa.

E le maglie della selezione messicana per rivendicare le proprie origini con un Azteco ritratto, o quelle che celebrano “el dia de los muertos“. Quelle regalate che hanno avuto valore dopo. Come quella dell’Atletico Madrid che mi ha portato mio figlio e che amo. Ma anche Grecia e Islanda. E le ho sempre indossate come t shirt anche prima che andasse di moda. Con annesse prese in giro.

La Danimarca era una delle “mie” squadre. La amavo dal 1992, quando vinse un Europeo contro tutto. Anche contro se stessa. Della nazionale ho due bellissime maglie: una con un vichingo seduto davanti al fuoco e quella dell’ultimo Europeo. Quando ho visto le maglie per il mondiale mi sono detto che era un bellissimo lavoro. Ma non capivo perché in ognuna gli stemmi fossero invisibili. Pensavo a un tocco di moda. Invece oggi la Hummel, azienda che fornisce le maglie, ha svelato che “le divise saranno quasi invisibili perché sosteniamo la nazionale ma non questo mondiale che si sta svolgendo con tanti morti sul lavoro”. La maglia nera è stata fatta apposta in segno di lutto e la useranno i portieri.

Chi urla scompostamente che “le squadre potevano ritirarsi” evidentemente non sa cosa ruota dietro il mondo del calcio e lo disprezza. Non è così facile rifiutare di partecipare. Non lo fu durante le dittature e i calciatori non sono meno legati di noi a tanti meccanismi di lavoro. Ma i danesi hanno preso una posizione netta. Un loro giocatore, Delaney, ha chiaramente detto che questo mondiale non sarà facile da giocare e non è da condividere.

Una bella presa di posizione, del marchio e della nazionale. Per questo pensateci bene prima di dire “è solo una maglia”. Non lo è mai e non lo è mai stata; è un veicolo di messaggi, un romanzo di stoffa e a volte anche un manifesto di protesta. Ma si sa, chi liquida la questione solo con i luoghi comuni sul calcio spesso non è stato felice. Purtroppo. Se no amerebbe uno sport che è tanto capitalista quanto, come poche cose al mondo, basato sul collettivo per vincere. La più dolce contraddizione.


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