Un flash in Tv, l’urlo che ti accompagna. E nasce la passione rosanero

Aprile 1981. Un ragazzino gioca con il telecomando: pochi canali, tra non molto lo chiameranno zapping. Si imbatte in uno studio spoglio ma colorato dalle sciarpe degli astanti: saranno una decina, seduti e bardati di rosanero. Il conduttore è in ansia poiché è saltato il collegamento. Poi appare una schermata nera con la scritta bianco tremolante: Pisa – Palermo 1 – 1. Si esulta come una vittoria in zona Cesarini. Perché il Palermo non sta vincendo ma ha fatto goal fuori casa: una rarità, spiegano dalla diretta.

Due giorni dopo, finalmente, la differita: maglie rosa, pantaloncini neri e calzettoni bianchi che fanno spiccare il movimento delle gambe dei giocatori. Si muovono al piccolo trotto, come intimorite: i nerazzurri invece corrono come matti ed è un assedio. Sembrano dei maialini destinati al macello, i giocatori che rappresentano la mia città. E mi viene la voglia irrefrenabile di correre da loro per incitarli, maledizione.

E così la Favorita sarà la mia seconda casa, il mio teatro dei sogni. Scoprirò che noi abbiamo il sole e loro la nebbia, che uno stadio può ribollire come un catino e farti battere forte il cuore, battendo tutti le mani all’unisono e urlando, saltando come un forsennato, “Chi non salta è catanese”. Era la mia piccola guerra: altro che soldatini di plastica. Un colore ben definito contro tutti gli altri colori: il colore di una città multicolore avvolta dal nero di una cronaca nera. E ti sentivi come una piccolo Davide che prova ad abbattere i tanti Golia.

Le settimane scandite da vittorie e sconfitte, le interrogazioni a scuola e le partite di calcio condizionate dall’esito domenicale. Rendevo meglio, quando il Palermo vinceva, peggio quando perdeva. E ci si preparava per la prossima battaglia: l’arena che incita i gladiatori rovesciando l’ordinario per uno spettacolo straordinario. Alla Favorita erano gli altri a farsela sotto: si sentivano all’inferno perché quella era una bolgia. Io, dentro uno stadio e tutto il mondo fuori. Dove juventini e interisti litigavano senza avere la minima idea di che cosa stessero perdendo. Gli importava solo la classifica ed il conto degli scudetti: chi è Mumo Orsi, chi è Mariolino Corso? Non lo sapevano, mentre io sapevo chi era stato Bronèe e conoscevo le gesta di Vernazza. E non grazie a Google.

È questo il senso di appartenenza. Ti può colpire grazie ad un telecomando, può scaturire dall’orgoglio di un cittadino o per immacolata concezione. Porta sofferenza ma anche esaltazione, fino all’orgasmo che ripaga del tutto. Lo provi ogni volta che il pallone entra in porta. Un “Tardelli” col rosanero addosso e l’urlo di Monastra che ti accompagnerà, per sempre.

L’articolo di Dario Romano, con il consenso dell’autore, è tratto dalla pagina Football History. Nella foto “colorata” Vittorio Masci, 81 presenze tra il 1948 e il 1951.

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