“Palermo, a Perugia l’alba di un nuovo giorno. E le mie urla…”

Lo ammetto, lo confesso e non mi pento. Mi rivedo a saltellare in piedi con il pugno chiuso di fronte allo schermo del mio televisore occupato per metà dal faccione stranito e deluso del pennellone nero che s’è fatto appena uccellare dal nostro portierino. Nell’aere un’infinita sequenza di palermitanissimi “imperativi aspirativi” tanto cari alla nostra Curva Nord e ormai sdoganati nel gergo colloquiale e persino nelle aule accademiche.

PALERMO, ACCOGLIENZA TRIONFALE ALLO STADIO

Da alcuni anni mia moglie non era più avvezza ai miei urli e alle mie parolacce, espressioni un po’ volgari della trance agonistica che coinvolge un tifoso come me persino nel sacro isolamento del proprio soggiorno e della propria copertina “da partita”. Lei entra preoccupata profanando il sacrario: “Che succede ? Ti sei fatto male ?. Ah, ho capito: ma non t’era passata?”. E no che non passa e non ti può passare.

Persino quando a 62 anni suonati cominci a riflettere sul fatto che forse è vero che in fondo il calcio non è altro che un gioco in cui 22 giovanotti tatuati e in mutandoni vanno appresso a una palla. Persino quando ti tolgono il senso dell’appartenenza sputandoti in faccia ogni giorno che invece a te non appartiene un bel niente. E allora cominci a domandarti se davvero valga la pena di soffrire pagando. E dunque pagare due volte per avere niente.

E invece no. La vittoria di Perugia merita tutte le urla, le parolacce, i batticuori, le unghia mangiate, il fiato trattenuto. I “suca” e i salti di gioia sui cuscini del divano. Perché essa, una vittoria da uomini veri, potrebbe davvero rappresentare “il punto di svolta”. Una vittoria dal sapore antico e mai dimenticato della battaglia contro tutto e contro tutti. Con quel portierino che, oltre a parare un rigore, vola un paio di volte all’incrocio in stile Girardi dei tempi belli e con quel guerriero bellu…ino che in campo scalcia e urla insulti e bestemmie, ma che con il suo sfogo risentito ha carezzato le mie orecchie di tifoso romantico che non si rassegna alla morte del calcio che amava. E forse il messaggio, così netto e chiaro, di una squadra mai troppo amata, oltre che a noi tifosi e a tutta la città, ha un altro destinatario ancor oggi ignoto: colui che dovrebbe decidere se davvero valga la pena puntare le proprie fiches alla roulette del calcio italiano scegliendo il nero e il rosa.

L’alternanza di colpi di scena in queste ore frenetiche fatta di friulani impenitenti ma non più impuniti, di manager che passano nel giro di poche ore dal calcio alle auto elettriche, di squali e remore commensali, di inglesi, di maltesi e di americani, di nuove e vecchie cordate non è ancora giunta all’epilogo. E così, forse domani rileggendo queste mie parole potremmo tutti farci un’amara risata. E persino un pianto. Ma lasciatemi sperare che la battaglia vinta ieri al Curi sia il viatico per la vittoria di una guerra più importante: quella per il salvataggio e per la rinascita del Palermo.

La risalita dopo aver toccato il fondo. Sperando che chi gestirà il Fondo, americano o nostrale, comprenda che nessuno qui a Palermo chiederà la luna. Nessuno chiederà scudetti o scempionlì (per dirla alla Brandaleone). Piuttosto, solo programmi chiari, serietà e rispetto per una tifoseria divisa e delusa che, come ha ben chiosato il veterano Italo Cucci, per anni è stata vittima del virus della gratitudine. Da Perugia la squadra ha mandato il proprio messaggio. Adesso tocca a questa città che ha già troppi “senza” per potersi permettere anche il “senza squadra di calcio”. Perché no, non è vero che il calcio è solo un gioco in cui 22 giovanotti tatuati e in mutandoni vanno appresso a una palla. Il calcio è ben altro. Il trionfo di Perugia e le mie urla in soggiorno davanti alla TV ne sono la prova.

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