Honey, calciatrice e donna in Palestina: "Il sogno? Portare speranza attraverso lo sport" ​​

Honey, calciatrice e donna in Palestina: “Il sogno? Portare speranza attraverso lo sport”

Honey Taljieh è una donna che ha attraversato innumerevoli vite in una vita sola. È una ex calciatrice che ha fondato la nazionale femminile palestinese. Il che significa dover andare contro a ciò che una donna rappresenta in quei territori nel fare qualcosa di “non consono” e al contempo vivere in una zona in cui la pace non attecchisce, anzi, avvizzisce ogni volta che sembra riprendersi.

Honey, dopo una carriera spesa tra strade polverose da bimba e campi da calcio da grande, adesso rappresenta il suo popolo alla FIFA nel ruolo di Public Relations Manager. Ha cominciato a calciare un pallone a sette anni per le strade di Betlemme, ora porta i diritti dello sport per le donne di quei territori senza requie. Recentemente è stata accolta insieme ad alcuni rifugiati palestinesi nello stadio dell’Athletic Bilbao, che ha tributato un lungo applauso a cui si è unita anche la squadra basca.

Ho voluto contattarla per conoscere la sua storia. Una mano fondamentale me l’ha data un’altra ex nazionale palestinese mia amica: Natali Shaheen. Autrice di un bellissimo libro “Un calcio ai pregiudizi: dalla Palestina alla Sardegna”, per cui ho avuto l’onore di curare la prefazione. È stata Natali a “intercedere” e a farmi guadagnare la fiducia di Honey, che ha risposto con equilibrio e lucidità a tutte le domande in mezzo a mille impegni, tra cui anche quelli familiari, vista la recente possibilità di una pace che si spera duratura.



Cosa ha significato per lei voler diventare una calciatrice in un posto come la Palestina? E come ci sei riuscita?

“Voler diventare una calciatrice in Palestina era più di un sogno: era un atto di speranza. Crescendo sotto occupazione, circondata da posti di blocco e restrizioni, il calcio mi ha dato libertà. Era il mio modo di respirare, di sentirmi viva e di credere in qualcosa di più grande della paura. Ci sono riuscita grazie alla testardaggine e alla convinzione. Non c’erano strutture, né supporto, e spesso nessuna comprensione, ma ci siamo create i nostri spazi. Giocavo per strada, nei cortili delle scuole, ovunque potessi. La palla è diventata la mia via di fuga e il mio strumento”.

Quali difficoltà deve affrontare una donna che vuole praticare sport in questi territori, dove la tensione e la guerra sono costanti?

“Una donna in Palestina affronta una doppia lotta: una contro l’occupazione e una contro le aspettative sociali. Si lotta contro i limiti dell’occupazione e contro i limiti della tradizione. Sicurezza, risorse e persino l’accettazione non sono mai garantite. Ma il bello è che ogni ragazza che osa giocare diventa un simbolo di resistenza. Quando una donna gioca a calcio in Palestina, sta dicendo: esisto, ho dei sogni e ho una voce”.

Che valore ha avuto creare la nazionale femminile palestinese? E cosa significa rappresentarla nel calcio internazionale?

“Ha significato aprire una porta che non esisteva. Dare alle donne il diritto di essere viste, di essere ascoltate e di rappresentare il proprio Paese con orgoglio. Indossare la maglia della nazionale è stato il più grande onore della mia vita. Non si trattava solo di calcio: significava portare le storie, le lotte e le speranze di un intero popolo sulla scena mondiale. Ogni partita ci ricordava che apparteniamo a questo posto, che la Palestina esiste e che le nostre donne hanno qualcosa di potente da dire”.

Cosa pensa della situazione attuale nel suo Paese? 

“La situazione odierna è straziante: la sofferenza, la distruzione, la perdita di vite innocenti. È indescrivibile. Ma credo ancora nella pace, perché senza questa fede non resta nulla. La pace non verrà solo dal silenzio o dalla politica: deve venire dalla giustizia, dall’uguaglianza e dal riconoscimento della nostra comune umanità. Il mondo deve vedere i palestinesi non come vittime, ma come persone che meritano dignità e una vita equa e giusta”.

Il 15 novembre, l’Athletic Bilbao affronterà la nazionale palestinese: è un potente gesto di riconoscimento. Quali sono gli impegni della nazionale femminile e a che punto si trova nel suo percorso?

“Questo gesto significa molto: è un segno che lo sport può costruire ponti e dare voce a chi non ha voce. La nazionale femminile continua a crescere nonostante le enormi sfide: strutture limitate, difficoltà finanziarie e l’impatto della continua occupazione. Ma l’impegno delle ragazze è incrollabile: si allenano, competono e portano un messaggio di resilienza e speranza ovunque vadano. Ogni partita è una vittoria, non solo per lo sport, ma anche per l’emancipazione femminile in Palestina”.

Quali calciatrici ammira oggi? E quali calciatori? E per quale squadra fa il tifo?

Ammiro profondamente le giocatrici che usano la loro piattaforma per ispirare e guidare (tra le follower di Honey c’è la calciatrice afghana, naturalizzata danese, Nadia Nadim, altra ambasciatrice del calcio in territori difficili, ndr). E per quanto riguarda le squadre, ammiro l’Athletic Bilbao per i suoi valori e il suo coraggio e, naturalmente, sostengo sempre la nazionale palestinese”.

Le piacerebbe intraprendere la carriera di allenatrice?

“Penso che sia troppo tardi per pensare a una carriera da allenatrice (sorride…), ma credo nell’allenamento della vita. Amo aiutare gli altri a crescere: è il modo in cui si restituisce qualcosa. Che sia come allenatrice o come mentore, voglio continuare a ispirare la prossima generazione, soprattutto le ragazze in Palestina e non solo. Il calcio mi ha dato voce e voglio aiutare anche gli altri a trovare la loro”.

Quale messaggio vuole inviare alle donne palestinesi che vogliono emergere nel calcio?

“Il mio messaggio è semplice: credi in te stessa e non aspettare mai il permesso. La strada sarà dura, ma ogni passo che fai apre la strada a un’altra ragazza. Gioca per la gioia, gioca per la libertà e gioca per mostrare al mondo che le donne palestinesi possono sognare e raggiungere i propri obiettivi”.

Ha detto che suo padre non voleva che lei diventasse una calciatrice. Cosa ne pensa la sua famiglia ora, considerando il meraviglioso percorso che ha fatto?

“All’inizio, mio ​​padre non capiva: si preoccupava di quello che la gente avrebbe detto e della mia sicurezza. Ma col tempo, ha capito quanto il calcio significasse per me e come mi avesse cambiato la vita. Oggi è orgoglioso. La mia famiglia ha visto che quello che è iniziato come un sogno è diventato una missione: rappresentare la Palestina, dare potere alle donne e portare speranza attraverso lo sport”.

LEGGI ANCHE

“MI MANDA MONASTRA”, LA PUNTATA DEL 20 OTTOBRE

LE PAGELLE IRONICHE

PALERMO, INZAGHI MIGLIOR ALLENATORE DELLA SCORSA SERIE B

3 thoughts on “Honey, calciatrice e donna in Palestina: “Il sogno? Portare speranza attraverso lo sport”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *