L’euro-esordio di Mancini a 30 anni dallo scudetto della Samp

È lui l’uomo del giorno. Roberto Mancini fa già parte della storia calcistica italiana, protagonista del mito sampdoriano, membro di quella generazione di fantasisti che in Italia ha conosciuto una fioritura straordinaria.

La sua storia da calciatore affascina ancora, a 30 anni da quel leggendario scudetto con la Sampdoria, ma adesso ci riguarda da vicino il suo presente. Anzi, l’immediato futuro. Come ct della nazionale italiana, che promette un Europeo da protagonista, ha già conquistato il merito di aver restituito ai tifosi azzurri aspettative smarrite da tanto, troppo tempo.

Mancini appariva quando la metamorfosi del calcio risentiva di una silenziosa ma eccezionale accelerazione verso nuove forme e velocità. Più alto e grosso di Rivera, ma più esile e basso di Totti, Mancini attraversava i campi di un calcio sempre più veloce, prossimo a staccarsi dalla rampa di lancio per toccare il cielo. In Italia, lo toccarono per primi i ragazzi della Samp, impadronendosi del nuovo decennio calcistico che aveva già perso la sua più grande icona: Maradona.

Le cronache sportive sarebbero state impegnate per una quindicina d’anni a riportare l’ascesa della Samp e il suo en plein. Nel 1981 otteneva la promozione in serie A, nell’82 inseriva in organico Mancini, nell’84 vinceva la prima Coppa Italia della sua storia, dieci anni dopo avrebbe messo in bacheca la quarta. Nel 1991, dieci anni dopo la promozione, conquista lo scudetto della consacrazione. A queste vanno aggiunte la Coppa delle Coppe dell’89 e la Supercoppa del ’92.

La parabola della Samp si conclude definitivamente nel 1997, con l’eliminazione al primo turno dalla Coppa Uefa, la retrocessione in B e la contestuale cessione di Mancini alla Lazio. Si preparava un passaggio di consegne a beneficio della Capitale e dello stesso Mancini, che nella stagione 1999/2000 partecipava da protagonista alla vittoria del secondo scudetto della Lazio.

I grandi fantasisti, quelli che hanno dato senso e prestigio al ruolo, ci hanno mostrato di non avere o di non volere avere niente a che fare con il trequartista. Il fantasista è diverso per missione e per vocazione. Non solo Baggio, Mancini è stato uno di quelli che ce lo ha dimostrato alla grande. 156 goal su 541 partite, tutta un’altra storia rispetto al Divin Codino.

Mancini ha sempre concepito l’azione prima di tutti, ha sceneggiato i gol di Vialli, Chiesa e Montella. Possedeva la dote universale della quale si ha un disperato bisogno, sia dentro che fuori dal campo: la leadership. A 36 anni, Mancini era pronto a passare dall’altra parte, a cambiare pelle. La Lazio non vinceva lo scudetto da 26 anni, Mancini lo ha reso possibile a un passo dal ritiro, pensando e comunicando da allenatore.

Di quella stessa leadership ne hanno beneficiato le grandi squadre dell’arena europea prima e gli afflitti tifosi della Nazionale poi, che fino a tre anni fa avrebbero messo la firma per presentarsi all’Europeo con queste aspettative. Non resta che guardarci alle spalle, misurandoci con il passato e l’esperienza di chi si è posto l’obiettivo di dare a questa Nazionale quei folli momenti che entrerebbero di diritto nella magica rassegna di notti magiche che compete a poche altre nazionali nella storia.

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